Storia di cappe e spade. La diffusione dell’eroina in Italia a partire dalla metà degli anni ‘70

Quando il tossicomane ricerca il trattamento egli ha, nella maggior parte dei casi, già esperimentato molte volte i sintomi da astinenza. Perciò è già preparato a subire una prova molto dura ed è disposto a sopportarla. Ma se il tormento dell’astinenza è protratto per due mesi invece che per dieci giorni può darsi che il tossicomane non sia in grado di sopportarlo.
(William Burroughs, Pasto nudo, 1959)

Cos’è la dipendenza da oppiacei

Quasi sconosciuta sino al 1970, l’eroina irrompe in Italia con una forza di deflagrazione senza precedenti. Il Centro Antidroga del Comune di Roma nel 1975 quantifica in alcune migliaia i consumatori della capitale (dal settimanale “Panorama”, 27 novembre 1975, p. 63). È lecito e, forse, ancor più doveroso, chiedersi cosa sia accaduto nel giro di pochi anni, rigettata l’ipotesi di una casualità assai poco credibile.

Sulla scena del consumo italiano l’eroina non arriva misteriosamente né con gradualità. Si diffonde massicciamente sostituendosi o affiancandosi a tutto ciò che era presente in precedenza, ossia soprattutto anfetamine, barbiturici e ipnotici non barbiturici (come il metaqualone).

Il momento determinante nello sviluppo del modello più moderno delle tossicomanie nel nostro Paese è quello del “Barcone” sul Tevere.

Il Nucleo Antidroga dei Carabinieri, guidato dal capitano Giancarlo Servolini del Servizio Informazioni Difesa (SID), la sera del 21 marzo 1970, fa un’irruzione su un “Barcone” capitolino effettuando 90 arresti per droga. In sei mesi si susseguono oltre diecimila articoli sul fenomeno, i più scegliendo toni allarmistici e terrorizzanti sino a rasentare il patetico e/o il grottesco.

Nell’aprile del 1976 il “Corriere della Sera” segnala un caso di intossicazione a Gropello Cairoli, in provincia di Pavia, parlando genericamente di “caramelle che provocano strane sensazioni” che sarebbero state offerte agli studenti delle scuole medie del paese da alcuni sconosciuti.

Due anni dopo, nel settembre 1978, lo stesso quotidiano milanese pubblica un’inchiesta sul consumo di stupefacenti nelle scuole, titolando l’articolo con un ben più che allusivo: «Regalano caramelle truccate per iniziare i bambini alla droga».

Quanto la notizia relativa al “Barcone” sul Tevere fosse reale, soprattutto in merito ai quantitativi sequestrati, resta ancora oggi (politicamente) dibattuta; ciò che è innegabile è una delle dirette conseguenze dell’operazione di polizia e della campagna mediatica, ossia lo scatenarsi di una vera e propria caccia alle streghe che portò nel solo 1970 a oltre 1000 arresti e al costituirsi di Nuclei Antidroga in tutta Italia, che si avvalsero della collaborazione del Narcotic Bureau statunitense.

Tra le prime strategie di guerra alle droghe del periodo vanno ricordate la Legge Valsecchi con la quale viene impedito l’acquisto di anfetamine presso le farmacie a partire dal 1972 – in ritardo rispetto ad altri Paesi europei – e la scomparsa, voluta dalla criminalità e accelerata dall’attenzione quasi univoca delle Forze dell’Ordine, della cannabis dal mercato di strada.

Un’équipe dell’Istituto Superiore di Sociologia di Milano, coordinata dal professor Guido Martinotti, ha analizzato, avvalendosi di tecniche di elaborazione elettronica, tutti gli articoli sulla droga apparsi su sei quotidiani significativi (“Corriere della Sera”, “Giorno”, “L’Unità”, “La Notte”, “La Stampa”, “L’Avvenire”) arrivando alla conclusione che, nella maggioranza dei casi, i consumatori di droghe cosiddette leggere arrestati dalla polizia venivano qualificati come: «devianti», «squallidi», «disumani», «violenti», «sprovveduti» (Caraccia et al., 1974).
Rendendo la vita impossibile a capelloni, freackettoni nelle piazze o nelle case e respinti e visti come drogati dalla gente, l’approccio intransigente sembra spingere una parte degli stessi a darsi all’eroina, facilmente reperibile, di buona qualità e, solo inizialmente, a costi contenuti (Cancrini, 1973).

In principio si tratta di cloridrato di morfina prodotto da un’industria tedesca, che riesce così a sbarazzarsi di enormi scorte inutilizzate – e non più vendibili ufficialmente – di morfina in pasticche, probabilmente residui della guerra in Vietnam. Le organizzazioni criminali acquistano le pastiglie facendole arrivare in Pakistan, a Peshawar, dove vengono rivendute al mercato nero agli europei di passaggio: 30 lire a pasticca.
Molti giovani europei in viaggio verso l’India cominciano a bucarsi con questa morfina, riportandone esperienze gratificanti, consentendo, a partire dall’autunno del 1972, la diffusione anche in Italia, in particolare Roma e Milano.

Dal febbraio 1973, il Centro Antidroga del Comune di Roma comincia a ricevere i primi casi di intossicazione da morfina. A distanza di un anno e mezzo sono circa 160 i consumatori abituali di oppiacei intercettati. Nel settembre del 1974, il neuropsichiatra Riccardo Zerbetto, dell’équipe del Centro Antidroga, segnala un 36% di ex consumatori di anfetamine, praticamente oltre un terzo del totale (Zerbetto, 1974).
Il passaggio successivo vede la sostituzione della morfina con l’eroina – la sostanza farmacologicamente più simile –, il pieno controllo da parte della criminalità organizzata – la mafia siciliana –, l’innalzarsi dei prezzi della stessa, l’istaurarsi di dipendenze, il crescente numero di overdose tra i tanti consumatori inesperti.
Tra il 1974 e il 1975 la media annua di arresti in Italia per droghe leggere sale a 8.000 persone. Il mercato dell’hashish è praticamente bloccato, per contro spalancato ai trafficanti di eroina (Rusconi e Blumir, 1972).
«Nasce in Italia la “psicosi” droga: per decine di milioni di italiani la droga diventa “un male oscuro” per centinaia di migliaia di giovani, una tentazione proibita» (Blumir, 1976, p. 135).

La ricostruzione degli storici e di alcuni sociologici, tra i quali Guido Blumir, ha riportato la possibilità della presenza di una mente comune a monte dell’intero susseguirsi di azioni, definendo ciò che sarebbe stato messo in campo dai servizi segreti dei Paesi del blocco occidentale, nell’ambito della Guerra Fredda, finalizzato a diffondere l’uso di droghe pesanti tra i giovani attivisti dei movimenti di contestazione, in maniera da renderli dipendenti e politicamente inoffensivi, con il nome di “Operazione Blue Moon”. Una sorta di strategia della tensione in chiave narcotica.

Chi è l’eroinomane?

Se negli anni ’70 non tutti conoscevano gli effetti dell’eroina, con il tempo i consumatori hanno imparato a proprie spese che non è possibile governare alcuni meccanismi che attraverso la stessa si sviluppano: «tra tutte le droghe conosciute e diffuse nel mondo, l’eroina è la più pericolosa, perché crea in chi la usa uno stato di dipendenza fisica e psicologica che rende rapidamente schiavi» (Lamour e Lamberti, 1973, p. 9).
Sembra, dunque, che man mano che l’uso di oppiacei acquisisce centralità nella vita del consumatore «… le altre cose alle quali si interessava l’intossicato si svuotano d’ogni importanza. La vita si riduce alla droga: una dose, e già si guarda con ansia a quella successiva, ai “nascondigli” e alle “ricette”, agli “aghi” e alle “pompette contagocce”. Il tossicomane, il più delle volte, crede di condurre un’esistenza normale e pensa che la droga sia un fatto incidentale. Non si rende conto che, pur svolgendo le sue attività estranee alla droga, sta scivolando lungo la china. Solo quando gli viene tagliata la fonte dei rifornimenti capisce quale importanza abbia la droga per lui. “Perché non può fare a meno dei narcotici, signor Lee?” è la domanda posta normalmente dagli psichiatri stupidi. Si può solo rispondere “ho bisogno della droga per alzarmi dal letto al mattino, per radermi, per fare colazione. Ne ho bisogno per rimanere in vita”. Naturalmente, gli intossicati non muoiono, di norma, se vengono privati dello stupefacente. Ma, in un senso del tutto letterale, il liberarsi del vizio implica la morte delle cellule che non possono sopravvivere senza la droga e la loro sostituzione con cellule non bisognose di sostanze stupefacenti» (Burroughs, 1962, p. 70).
All’inizio l’eroina è piacere, sembra possibile controllarne l’assunzione; quando, però, si instaura la dipendenza, finisce di esserlo, persistendo nella memoria solo il ricordo di ciò che riusciva a offrire ad ogni suo consumo.
Per uscirne non bastano la volontà e la motivazione al cambiamento, che pure rappresentano le spinte iniziali proprio perché l’eroina agisce su quella stessa volontà. Se così non fosse – e ogni dipendente patologico vorrebbe smettere – uscirne non sarebbe tanto difficile.

L’intervento non può essere concepito in chiave unilaterale, certamente va declinato in chiave specialistica. L’italica tradizione repressiva e intollerante non ha prodotto risultati significativi, così come gli interventi esclusivamente sanitari non possono essere pensati come esaustivi.
L’impostazione deve essere multidisciplinare per evitare tentazioni tecnicistiche, con una formazione continua e multiprospettica di quanti lavorano all’interno dei Servizi (pubblici e privati), accompagnata da sensibilizzazione e informazione puntuale e basata su evidenze destinata all’intera collettività.
Abbiamo sempre pensato che lavorare con il consumatore/dipendente non sia facile; la complessità dovrebbe fungere, però, da stimolo e mai da alibi.

Bibliografia

1. Blumir G. (1976), Eroina. Storia e realtà scientifica. Diffusione in Italia. Manuale di autodifesa, Feltrinelli, Milano.
2. Burroughs W.S. (1962), La scimmia sulla schiena, Rizzoli, Milano, prima edizione 1953.
3. Cancrini L., Malagoli Togliatti L., Meucci G. (1972), Droga: chi, come, perché, Sansoni, Firenze, pp. 53-54.
4. Cancrini L. (a cura di) (1973), Analisi del comportamento comunicativo di un giornale romano, in Esperienze di una ricerca sulle tossicomanie giovanili in Italia, Mondadori,
Milano, pp. 194-230.
5. Caraccia C., Costa C., Martinotti G. (1974), La stampa quotidiana e la droga, in Droga e società italiana, Indagine del Centro Nazionale di Prevenzione e difesa sociale,
Giuffré, Milano.
6. Lamour C. e Lamberti M.R. (1973), Il sistema mondiale della droga. La tossicomania come prodotto del capitalismo mondiale, Einaudi, Torino.
7. Rusconi M. e Blumir G. (1972), La droga e il sistema. Cento drogati raccontano, Feltrinelli, Milano, pp. 209-226.
8. Zerbetto R. in L’impiego del metadone nel trattamento della morfinodipendenza, “Rassegna di studi psichiatrici,” vol. LXIII, fasc. 6, novembre-dicembre 1974, p. 875.